Commentario abbreviato:

2Corinzi 11

1 Capitolo 11

L'apostolo fornisce i motivi per cui parla a titolo personale 2Cor 11:1-14

Dimostra di aver predicato liberamente il vangelo 2Cor 11:5-15

Spiega ciò che avrebbe aggiunto in difesa del proprio personaggio 2Cor 11:16-21

Racconta le sue fatiche, le sue preoccupazioni, le sue sofferenze, i suoi pericoli e le sue liberazioni 2Cor 11:22-33

Versetti 1-4

L'apostolo desiderava evitare che i Corinzi fossero corrotti dai falsi apostoli. C'è un solo Gesù, un solo Spirito e un solo Vangelo da predicare loro e da accogliere; e perché mai qualcuno dovrebbe essere pregiudicato, per le astuzie di un avversario, contro colui che per primo li ha educati alla fede? Non dovrebbero ascoltare uomini che, senza motivo, li allontanerebbero da chi è stato il mezzo della loro conversione.

5 Versetti 5-15

È molto meglio essere chiari nel parlare, ma camminare apertamente e coerentemente con il Vangelo, piuttosto che essere ammirati da migliaia di persone ed essere innalzati nell'orgoglio, in modo da disonorare il Vangelo con atteggiamenti malvagi e vite empie. L'apostolo non vuole dare spazio a nessuno che lo accusi di avere disegni mondani nella predicazione del Vangelo, affinché gli altri che si opponevano a lui a Corinto non traggano vantaggio da questo punto di vista. L'ipocrisia è prevedibile, soprattutto se consideriamo il grande potere che Satana, che governa nei cuori dei figli della disobbedienza, ha sulla mente di molti. E come ci sono tentazioni per una condotta malvagia, così c'è un uguale pericolo dall'altra parte. Anche questo serve a Satana per contrapporre le buone opere all'espiazione di Cristo e alla salvezza per fede e grazia. Ma la fine scoprirà coloro che operano con l'inganno; il loro lavoro finirà in rovina. Satana permetterà ai suoi ministri di predicare separatamente la legge o il Vangelo; ma la legge, stabilita dalla fede nella giustizia e nell'espiazione di Cristo e dalla partecipazione al suo Spirito, è la prova di ogni falso sistema.

16 Versetti 16-21

È dovere e pratica dei cristiani umiliarsi, in obbedienza al comando e all'esempio del Signore; tuttavia la prudenza deve indirizzare in ciò che è necessario fare le cose che possiamo fare legittimamente, anche il parlare di ciò che Dio ha operato per noi, in noi e per mezzo di noi. Senza dubbio qui si fa riferimento a fatti in cui è stato mostrato il carattere dei falsi apostoli. È sorprendente vedere come questi uomini portino i loro seguaci in schiavitù, come li derubino e li insultino.

22 Versetti 22-33

L'apostolo fa un resoconto delle sue fatiche e delle sue sofferenze, non per orgoglio o per vanagloria, ma per l'onore di Dio, che gli ha permesso di fare e di soffrire così tanto per la causa di Cristo; e mostra in che cosa eccelleva i falsi apostoli, che cercavano di sminuire il suo carattere e la sua utilità. Ci stupisce riflettere su questo resoconto dei suoi pericoli, delle sue difficoltà e delle sue sofferenze, e osservare la sua pazienza, la sua perseveranza, la sua diligenza, la sua allegria e la sua utilità in mezzo a tutte queste prove. Vedete che ragione abbiamo di amare il fasto e l'abbondanza di questo mondo, quando questo apostolo benedetto ha provato così tante difficoltà. La nostra massima diligenza e i nostri servizi appaiono indegni di nota se paragonati ai suoi, e le nostre difficoltà e prove sono appena percepibili. Questo può portarci a chiederci se siamo davvero seguaci di Cristo. Qui possiamo studiare la pazienza, il coraggio e la ferma fiducia in Dio. Qui possiamo imparare a pensare meno a noi stessi; e dovremmo sempre attenerci rigorosamente alla verità, come in presenza di Dio; e dovremmo riferire tutto alla sua gloria, come Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che è benedetto in eterno.

Commentario del Nuovo Testamento:

2Corinzi 11

1 §2. La superiorità dell'apostolato di Paolo su quello vantato dei dottori giudaizzanti 2Corinzi 11:1-12:18

Paolo ha affermata la realtà della sua autorità apostolica, dichiarandosi pronto a sottostare alla prova obiettiva dei fatti, che sono, in fondo, l'attestato fornito dal Signore. Dovendo però esporre i fatti che dimostrano la superiorità del suo apostolato su quello spurio dei giudaizzanti, sarà costretto, contro la regola enunziata da lui stesso 2Corinzi 10:17; a gloriarsi. Perciò prima di far quel che pur gli è imposto dal suo zelo per la chiesa, egli ha cura di caratterizzarlo, in tono ironico, come una cosa insensata. Ma pure chiede ai Corinzi che son tanto condiscendenti verso i falsi dottori, di sopportare un tantino anche lui 2Corinzi 11:1-4. Entrando quindi in argomento, accenna alla superiorità sua in conoscenza ed in disinteresse 2Corinzi 11:5-15; alla superiorità del suo stato di servizio così ricco di fatiche, di pericoli e di patimenti 2Corinzi 11:16-33; alle eccelse rivelazioni ricevute che hanno reso necessario un contrappeso d'infermità 2Corinzi 12:1-10 e da ultimo ai miracoli operati da lui nella stessa Corinto 2Corinzi 12:11-18. Tutto ciò gli permette di non stimarsi inferiore per nulla ai sedicenti apostoli.

Sezione A. 2Corinzi 11:1-4 FOLLIA NECESSARIA

Paolo chiede ai Corinzi di tollerare la follia del suo gloriarsi. Vi è costretto dall'ansietà stessa che nutre a loro riguardo.

Oh! se voi sopportaste, da parte mia, un tantino di follia!

L'esclamazione: Oh! se... ( οφελον) esprime un intenso desiderio. I suoi avversarii non rifinivano dal far valere i loro titoli alla considerazione della chiesa. Era questo un agire da insensati. Paolo non usa raccomandar sè stesso; ma questa volta la necessità di difendere l'ufficio affidatogli lo costringe a fare una cosa insolita, giustificata da gravi motivi, ma ch'egli chiama tuttavia una follia perchè, di regola, è tale. Le ultime parole del versetto possono considerarsi come espressione di fiducia o come una domanda esplicita. Considerando il verbo come un indicativo, il senso è: «Ma pur voi mi sopportate», cioè, «io son persuaso che voi mi sopportate, tenendo conto delle ragioni che mi spingono ad agire così». Considerando il verbo ( ανεχεσθε) come imperativo:

Ma pur sopportatemi,

Il senso è ancora più piano. Riconosco che il gloriarsi è follia, ma pur, conviene che mi sopportiate, perchè la necessità mi costringe a far, per una volta, e in misura limitata (un tantino), quel che fanno ordinariamente gli stolti miei avversarii... E prosegue indicando la ragione che lo muove.

2 Poichè io son geloso di voi d'una gelosia di Dio, avendovi sposati ad un unico sposo, per presentare una vergine pura a Cristo.

Quel che spinge Paolo è l'amore ch'egli porta alla chiesa; amore che, tormentato com'è da un timore insistente, si muta in gelosia. Però, a mostrare che codesto sentimento non ha nulla di egoista, di terreno, lo chiama una «gelosia di Dio», una gelosia simile a quella che Dio stesso può nutrire, e ch'egli ha infatti nutrito riguardo al popolo con cui contrasse un patto sacro paragonabile al matrimonio Cfr. Osea 2:19-20; Isaia 54:5; 62:5; Ezechiele 16:8; 23:1-49. Egli è geloso di loro per il loro bene, e per la gloria del suo Signore. Infatti Paolo trovasi nella posizione di chi è stato, come Eliezer Genesi 24; il mediatore di un matrimonio ed ha ottenuto la mano di una fanciulla per il suo signore. La celebrazione del matrimonio è differita alquanto; ma il servo, saputo di qualcuno che cerca con astuzia di sedurre e sviare altrove il cuore della giovane, è pieno di ansietà e veglia, perchè vorrebbe presentare allo sposo una vergine pura, il cui cuore fosse tutto a lui rivolto. L'immagine è trasparente. La vergine fidanzata è la chiesa di Corinto; lo sposo è Cristo che dev'essere l'unico oggetto della fede e dell'amore della chiesa; le nozze saranno celebrate alla venuta di Cristo cfr. Matteo 25:1; Apocalisse 19:7; Efesini 5:27; Colossesi 1:22; la conversione dei Corinzi a Cristo mediante l'opera di Paolo è stata il fidanzamento, ed egli brama che la chiesa perseveri nella sua fede semplice e genuina, nell'amor suo sincero e santo fino al giorno di Cristo, senza lasciarsi per nulla sedurre dalle adulterazioni giudaizzanti.

3 Ma io temo che, siccome il serpente sedusse Eva colla sua astuzia, possano esser del pari corrotte le vostre idee [e sviate] dalla semplicità e della purezza (testo em.) riguardo a Cristo.

Eva fu sedotta dal diavolo che si servì del serpente come di uno strumento. Il tentatore colla sua astuzia insinuò, nel cuore di Eva, prima il dubbio riguardo all'ordine di Dio, poi la diffidenza e l'incredulità, tanto che la donna «fu indotta a non creder più ciò ch'era vero ed a credere invece ciò ch'era falso» (Hodge). Paolo teme che i seduttori giudaizzanti, ch'egli non esita a considerare come agenti di Satana camuffati da apostoli di Cristo cfr. 2Corinzi 11:13-14; riescano a corrompere i pensieri, le convinzioni evangeliche ch'egli si è sforzato di formare nei Corinzi e ad allontanarli dall'attitudine di fede semplice ed intera nell'opera e nella grazia di Cristo. Quegli intrusi «falsificano» infatti la Parola di Dio, essi predicano «un altro Gesù» diverso da quello di Paolo ed «un altro Evangelo». La quasi totalità dei Msc. legge dopo semplicità: «e dalla purezza». Non c'è motivo per ritenere inautentica questa parola. Essa aggiunge all'idea di semplicità quella di fedeltà e di santità. La chiesa deve mantenersi di fronte al suo sposo, Cristo, lontana dai raggiri dell'errore e lontana dalle male suggestioni e dalle contaminazioni del mondo.

4 Perciocchè se chi viene [a voi] predica un altro Gesù che noi non abbiam predicato, o se ricevete uno Spirito diverso da quello che avete ricevuto, o un Evangelo diverso da quello che avete accettato

(lett. «uno spirito diverso il quale voi non avete ricevuto, o un Evangelo diverso il quale voi non avete accettato»),

voi ben lo sopportate.

A quale idea si connette il perciocchè ( γαρ)? A quella del timore ansioso espresso in 2Corinzi 11:3, quasi volesse dire: io temo di voi... poichè se qualcuno si presenta con un Evangelo diverso da quello ch'io vi ho predicato, voi gli fate buona accoglienza? Ma l'Idea del timore è già una idea secondaria in questa sezione introduttoria. L'idea principale è quella contenuta nel verbo sopportare Che s'incontra due volte nel primo versetto e ritorna nel quarto. «Sopportatemi... poichè voi sapete bene sopportare chi attenta alla purezza dell'Evangelo che vi ho predicato, mentre io non faccio, gloriandomi, che difenderlo». In colui che viene [a voi] non è da vedersi un personaggio speciale, ma la personificazione dei dottori giudaizzanti venuti di Palestina a turbare la chiesa di Corinto, frutto degli altrui sudori. Predicare un altro Gesù non significa annunziare qual Salvatore una persona che non sia il Gesù storico; bensì presentarlo sotto un aspetto tale da dare di lui un concetto affatto diverso da quello che Paolo ne dava. Paolo predicava Gesù Figliuol di Dio e Figliuol dell'uomo, morto a cagione dei nostri peccati, risuscitato a cagione della nostra giustificazione. Lo predicava qual secondo Adamo venuto ad affrancar l'uomo dal giogo del peccato e della legge, per introdurlo nella gloriosa libertà dei figli di Dio. I giudaizzanti, per quel che ne possiam sapere, lo presentavano sotto l'aspetto di un Messia nazionale, che ribadiva le catene anche rituali della legge mosaica, facendo dell'osservanza di quella la condizione della salvezza. La fede in Gesù era suggellata nei cuori dal dono dello Spirito che creava una nuova vita di fiducia e di libertà filiale, di allegrezza, di santità. Esso è detto perciò Spirito di adozione. Ora, anche dello Spirito e della sua opera salutare, i giudaizzanti dovevano dare una nozione ben diversa da quella di Paolo, poichè il tipo di pietà servile e legale ch'essi presentavano era lungi dal rassomigliare a quello prodotto dall'Evangelo della grazia. Questo vuol significar Paolo quando dice: «Se ricevete uno Spirito diverso...». Alterata la nozione vera di Gesù e dello Spirito, non poteva rimanere intatta quella delle condizioni, della salvezza. All'Evangelo della salvezza «per grazia, mediante la fede», veniva sostituito un evangelo diverso, in cui figurava come condizione di salvezza l'osservanza della legge di Mosè. Tale almeno il concetto che risulta dagli Atti 15 e dall'Ep. ai Galati, circa le tendenze dei giudaizzanti. Il testo Tischendorf con la maggioranza dei Codici legge alla fine del versetto il verbo all'imperfetto: che si traduce: «voi lo sopportereste». Tuttavia essendo i verbi che precedono all'indicativo e potendo sospettare che l'imperfetto sia stato preferito perchè attenuava la colpa dei Corinzi, crediamo doverci attenere al testo del Cod. Vaticano e di molti altri minori: «Voi ben lo sopportate» ( ανεχεσθε). Sta in fatto che i sovvertitori giudaizzanti non erano da venire in Corinto, ma erano venuti ed avevano fatto pericolare la chiesa. Con questa parola di amara ironia, Paolo costata, non senza rimprovero, la eccessiva condiscendenza dimostrata dalla chiesa verso quegl'intrusi. Come i Galati, i Corinzi erano stati troppo pronti a voltar le spalle all'apostolo per dar ascolto a persone che eccellevano nel raccomandar sè stesse. Dopo una eccessiva condiscendenza verso i seduttori, potevano bene sopportare che Paolo facesse valere la superiorità del suo apostolato.

AMMAESTRAMENTI

1. Mai apparve Paolo più umile che quando lo vediamo confuso e mortificato di dover gloriarsi per rivendicare la propria autorità apostolica. Ahimè! quanto sono rari, anche fra gli uomini più pii, coloro che si sentono addolorati e mortificati nel parlar della propria grandezza o dei loro successi! (C. Hodge).

2. Nel predicar l'Evangelo ai non credenti, come nel conservar genuina la fede dei credenti, Paolo riguarda a Cristo centro della sua fede e del suo amore come della sua predicazione. Se chiama le anime è per unirle a Cristo per sempre; se mette i credenti in guardia contro le seduzioni è perchè desidera ch'essi conservino di fronte a Cristo una fede pura d'ogni mistura umana e un cuore ardente del primo amore, chi ha faticato, come Paolo, per condurre anime a Cristo è geloso di conservarle a Cristo. L'amore per gli uomini ha in lui la sua sorgente nell'amor di Cristo. «Rivestimi, o Dio, (tale era la preghiera d'un pio ministro), della vigilante sollecitudine provata da Paolo per la purezza del cristianesimo dei suoi convertiti. Dammi di sentirla per lo stato religioso di quei di casa mia».

3. Una chiesa giovane è facilmente esposta alle seduzioni degli operai frodolenti che nascondono sotto il manto dello zelo cristiano dei secondi fini egoistici; che, sotto un linguaggio evangelico. Insinuano dottrine opposte all'Evangelo della grazia. E quel che si dice d'una chiesa si applica a tutti i credenti poco sperimentati. Donde la necessità della vigilanza che prova gli spiriti per saper se son da Dio e tutto sottopone alla pietra di paragone della sua Parola. Chi è stato condotto all'Evangelo da un provato servitore di Cristo, farà sempre bene se diffida di coloro che insinuano sospetti e lanciano accuse contro chi è stato strumento di Dio per la conversione di un peccatore.

5 Sezione B 2Corinzi 11:5-15 LA SUPERIORITÀ DI PAOLO IN CONOSCENZA E DISINTERESSE

Dopo spiegata la necessità del suo gloriarsi, Paolo afferma in modo generico la sua convinzione di non essere inferiore in nulla ai dottori giudaizzanti. Quindi, scendendo ai fatti particolari che dovranno fornire le prove della sua affermazione, egli tocca anzitutto della conoscenza religiosa e del disinteresse da lui mostrati nella predicazione del Vangelo in Corinto.

Perciocchè, io stimo di non essere stato in nulla inferiore agli apostoli per eccellenza.

Anche qui il γαρ (perciocchè) si riferisce al pensiero principale espresso nella sezione 2Corinzi 11:1-4: Voi ben sopportate gl'intrusi: sopportate anche me nelle mie rivendicazioni. Perciocchè sono convinto che il mio apostolato non ha da temere il confronto con quello di codesti millantatori che vanno pavoneggiandosi nelle chiese altrui, spacciandosi per degli apostoli di grado superiore. E valga il vero... L'espressione ὑπερλιαν αποστ. vale «apostoli al sommo grado», cioè apostoli per eccellenza, di grado superiore, apostoli-ultra. Molti vi hanno scorto la designazione dei più cospicui fra i Dodici apostoli, di coloro ch'erano «stimati colonne» Galati 2:6-9. A questo obbiettassi:

a) che la riferenza ai veri apostoli del Signore mal si accorda con l'ironia contenuta nell'espressione «apostoli per eccellenza».

b) Lo scopo di Paolo non è di istituire un paragone fra sè ed i Dodici, bensì fra sè ed i falsi dottori cfr. 2Corinzi 10:12; 11:12-15,21; ecc. Il pensiero dei Dodici è estraneo al contesto.

c) Se parlasse dei Dodici, non si comprenderebbe che Paolo li riconoscesse implicitamente superiori a sè nel maneggiar con arte retorica la lingua greca 2Corinzi 6, poichè erano Galilei inferiori a Paolo per coltura.

d) A 2Corinzi 11:13, invece di chiamarli ironicamente «apostoli per eccellenza», li chiamerà col loro vero nome di «falsi apostoli» che si trasfigurano in apostoli di Cristo cfr. 2Corinzi 10:23. Dal che si vede chiaro che i dottori giudaizzanti si davano per apostoli di Cristo e colla loro smania di farsi valere, è facile intendere ch'essi esaltassero sè stessi anche al di sopra dei veri apostoli.

6 Che se anche sono incolto nel parlare, non lo sono però quanto alla conoscenza; anzi, in ogni cosa [quel che siamo l']abbiam manifestato, in ogni circostanza a vostro riguardo.

Ovvero: «Anzi, in ogni cosa l'abbiam dimostrata (la conoscenza), in ogni circostanza, nelle nostre relazioni con voi». Si rimprovera a Paolo di non essere un oratore elegante, sullo stampo dei rètori greci che probabilmente qualche dottore giudaizzante si sforzava di imitare per cattivarsi gli animi. Quell'arte retorica intenta più a procacciar lodi all'oratore che a crear convinzioni salde nel cuore, Paolo la ripudiava; trovando però nella chiara visione della verità e nell'ardente suo amore, l'eloquenza del cuore più efficace delle frasi ad effetto 2Corinzi 1:17; 2:1. Non ha difficoltà quindi a riconoscersi ιδιωτης (lett. «privato») nel parlare, cioè poco pratico, incolto, non versato nel bello ed elegante parlar greco. Questo però egli non considera come una inferiorità od una lacuna nei requisiti per l'Apostolo. I Dodici non erano rètori, e neppure Gesù. Egli può rivestire di una forma chiara ed esatta la verità che deve annunziare e tener desta l'attenzione delle moltitudini. Tanto gli basta. Quel che sarebbe più grave per l'ufficio suo sarebbe l'ignoranza della verità evangelica. A questo non si potrebbe supplire in alcuna maniera, poichè un ambasciatore il quale non conosca bene il messaggio che deve recare non può considerarsi come atto all'ufficio. Codesto requisito essenziale non fa difetto a Paolo. Egli non è «poco pratico» in fatto di conoscenza religiosa: e se ne appella alla dimostrazione fornitane ai Corinzi durante il suo soggiorno fra loro ed anche di poi. Si confronti la indiretta difesa del suo insegnamento in 1Corinzi 2;3. Si legga qui l'attivo Φανερωσαντες (avendo manifestato) coi codici più antichi e coi maggiori critici, ovvero il passivo «essendo stati manifestati», se ne deduce sempre l'intenzione di Paolo di appellarsene alla conoscenza che i Corinzi hanno di lui, del suo modo di parlare e della sua scienza delle cose divine. I due neutri «in tutto» e «in tutte le cose» che paiono un pleonasmo possono intendersi. Il primo, di ogni punto della conoscenza cristiana, sia dottrinale che morale: il secondo, delle circostanze pratiche diverse alle quali Paolo, nelle sue relazioni coi Corinzi, era stato chiamato; ad applicar la verità, con sapienza cristiana.

7 Quello però che avea dovuto colpire i Corinzi nella condotta di Paolo era stata la sua abnegazione, il suo disinteresse. Mentre i rètori e filosofi esigevano salarii altissimi dai loro discepoli, Paolo. Il dottor dei Gentili, si era sobbarcato alle fatiche del lavoro manuale per provvedere al sostentamento suo e dei suoi collaboratori. Pare appena credibile che anche in questo la sua condotta sia stata malevolmente interpretata, ma il tono in cui allude qui e in 2Corinzi 11:13-18 al disinteresse da lui mostrato, ci fa persuasi che anche la sua nobile abnegazione era stata presentata come una tacita confessione della inferiorità del suo apostolato, o quanto meno si era considerato il fabbricar tende come una occupazione poco dignitosa per un apostolo e poco decorosa anche per la chiesa. Gli avversarii avevano dovuto imitare l'Apostolo e menavano alto vanto della loro rinunzia, più o meno volontaria, ad un salario ufficiale, cercando, a quel che pare, di rifarsi in altro modo del mancato guadagno Cfr. 2Corinzi 20; 1Corinzi 9:12. Queste considerazioni spiegano il modo in cui Paolo tocca del suo disinteresse.

Ho io forse commesso un peccato quando, abbassando me stesso affinchè voi foste innalzati, vi ho annunziato gratuitamente l'Evangelo di Dio?

L'umiliar sè stesso abbraccia qui il sottoporsi a gravi privazioni e ad un faticoso lavoro manuale, lui l'Apostolo di Cristo così altamente onorato per altri riguardi. Questo aveva egli fatto affine di meglio riuscire a trarre i Corinzi dall'abisso di tenebre e di peccato ov'essi giacevano ed innalzarli alla conoscenza ed alla comunione di Cristo. L'Evangelo è di Dio perchè Dio ne è l'autore.

8 Ho predato altre chiese, prendendo [da esse] un salar i o per servirvi.

Non che Paolo abbia tolto a forza od ingiustamente alcuna cosa ad alcuno; ma coll'energica espressione: «Ho predato», vuol significare ch'egli ha accettato, per annunziar l'Evangelo in Corinto, dei soccorsi da chiese povere, le quali s'imponevano veri sacrifici per aiutare allo spargimento della verità. Pare alludere alle chiese di Macedonia che gli avevano fornito i mezzi di recarsi a Corinto, e fors'anche a quella di Efeso che potè pagargli il secondo suo viaggio colà.

9 Come nei primordii dell'evangelizzazione, così negli stadii successivi, e nelle circostanze più difficili, Paolo ha persistito nel proposito di non essere finanziariamente a carico della chiesa;

e quando, durante il mio soggiorno presso di voi, mi trovai nel bisogno, non fui di aggravio ad alcuno.

s'intende di voi. Non feci conoscere il mio bisogno, nè volli valermi del mio diritto al mantenimento col chiedere alcuna cosa alla chiesa. Per dirla di passata, tutto questo dà una ben meschina idea della generosità d'animo dei Corinzi. Il verbo καταναρκαω (cfr. narcotico) vale propriamente lasciarsi andare col proprio peso contro ad uno, come chi è preso da torpore; qui, imporre ad altri il peso del proprio mantenimento. Questo Paolo non avea voluto fare.

poichè al mio bisogno supplirono i fratelli venuti dalla Macedonia,

cioè probabilmente Timoteo e Sila allorquando raggiunsero Paolo in Corinto Atti 18:5 e posero a sua disposizione sia il loro proprio avere, sia le contribuzioni inviategli dalle chiese macedoni. Anche in Roma Paolo ricevette un soccorso dai Filippesi come altra volta ne avea da loro ricevuti in Tessalonica Filippesi 4:15-16.

Ed in ogni cosa,

sia che si trattasse di spese per vitto, o per vestimenti, ovvero per alloggio, o per viaggi,

mi sono astenuto dall'esservi a carico, e me ne asterrò ancora.

Lett. «ho conservato me stesso non a carico».

10 La verità di Cristo è in me, che codesto mio vanto non sarà ridotto al silenzio nelle contrade dell'Acaia.

Ad esprimere la irremovibile sua risoluzione, Paolo si serve delle parole: La verità di Cristo è in me; che alcuni interpretano «la veracità propria di Cristo è in me». Il senso più esatto pare essere: in questo che dico, parlo come uno che ha in sè la verità rivelata da Cristo, che n'è compenetrato e non può esser, per conseguenza, mancante di sincerità. Per altre formule di asseranza cfr. Romani 9:1; 1Timoteo 2:7; ecc. Il verbo vale propriamente: chiudere, sbarrare, ostruire, e si applica ad una via che si sbarra, alle orecchie che si chiudono, alla bocca quando vien chiusa Romani 3:10. Secondo l'immagine che si scorge qui, si traduce in un modo piuttosto che in un altro, restando pur sempre invariata l'idea. Così Heinrici: A questo mio vanto, non sarà preclusa la via, bisognerà che sia lasciato passare. Meyer considerando il vanto come personificato: Questo mio vanto non sarà ridotto al silenzio, non gli si chiuderà la bocca. A questo provvederà Paolo col ricusare, anche in avvenire, qualsiasi sussidio della chiesa, per il suo mantenimento.

11 Perchè? Perchè io non v'amo? Dio lo sa.

La risoluzione di Paolo poteva esser interpretata come un indizio di poco affetto, di sdegnoso ritegno; poichè se è vero che si riceve volentieri un dono da una persona amata, è altrettanto vero che si preferisce restare indipendenti e senza obblighi verso chi meno si ama. L'Apostolo previene una tale interpretazione della sua condotta e se ne appella alla onniscienza di Dio che investiga i cuori e ne conosce i più segreti moventi. Nel v. seguente poi, indica qual sia il vero motivo del suo modo di agire.

12 Ma quel che faccio lo farò ancora, per togliere recisamente

(lett. «tagliar via»)

l'occasione a coloro che desiderano un'occasione, affinchè in ciò di cui si gloriano siano trovati quali [siamo] anche noi.

La seconda parte del vers. è variamente interpretata. Il senso più ovvio è questo: io rinunzio a ricever dalla chiesa il mio sostentamento per togliere ai miei avversarii l'occasione desiderata di vantare una superiorità su di me, qualora io ricevessi un salario ed essi predicassero gratuitamente. Perseverando nella mia linea di condotta, essi restano su questo punto, semplicemente miei uguali. Ma si obbietta: È egli certo che i dottori giudaizzanti rinunziassero al salario? Paolo non parla egli 1Corinzi 9:12 di persone che usavano del loro diritto ad esser mantenute dalla chiesa? E qui a 2Corinzi 11:20; alludendo manifestamente ai dottori intrusi, dice: «Se alcuno vi divora, se alcuno prende... voi lo sopportate?» Parlando dei giudaizzanti in Romani 16:17-20 non li stimmatizza egli come persone «che non servono a Cristo, Signor nostro, ma al proprio ventre»? A cotali difficoltà si è cercato di sfuggire ammettendo o che i capi giudaizzanti fossero forniti di mezzi personali abbondanti o che i furbi dottori fossero disinteressati più in apparenza che in realtà; ch'essi rinunziassero ad un salario ufficiale ma trovassero modo di fare i loro interessi a spese della chiesa, sia col corteggiare i ricchi sia col ricevere privatamente delle offerte, almeno da una parte della chiesa. Si nota inoltre riguardo al passo 1Corinzi 9:12 che può non riferirsi ai giudaizzanti.

Chi non trova soddisfacente cotesta soluzione della difficoltà si appiglia ad una costruzione un po' diversa della frase traducendo: «... per togliere l'occasione a coloro che desiderano un'occasione affin d'essere trovati (o di esser trovati) in ciò, ecc.». In altre parole, Paolo non vorrebbe fornire agli avversarii l'occasione bramata di farlo scendere dalla posizione moralmente superiore in cui lo colloca la sua abnegazione, al livello dei salariati, ch'è quello dei suoi avversarii. Accettando una tale costruzione, riesce difficilissimo dare un senso alle parole: a in ciò di cui si gloriano». Schiniedel lo scorge in questo che i dottori giudaizzanti presentavano l'esercizio del diritto al mantenimento come una prova di apostolato autentico se non superiore, mentre l'abnegazione di Paolo sarebbe stata una confessione del carattere spurio della di lui missione. Tutto sommato, resta preferibile il senso primo indicato. Ad ogni modo, va notato che lo scopo assegnato qui al disinteresse di Paolo, non è stato che uno dei moventi che hanno determinata la sua condotta su questo punto. In 1Corinzi 9 egli ne indica un altro di natura più intima e personale. L'evangelizzare gratuitamente gli era apparso come il modo più atto a manifestare l'amor suo riconoscente verso Colui che dell'antico persecutore si era degnato fare il suo apostolo. La sua rinunzia ad un diritto, Paolo la porge come esempio a coloro che, per amore ai loro fratelli, erano chiamati a rinunziare a qualche loro libertà; ed ai Tessalonicesi aveva ricordato il suo lavoro manuale per spinger chi ne avea bisogno, a guadagnarsi onestamente il pane 2Tessalonicesi 3:7-10.

13 Perciocchè questi tali sono falsi apostoli, operai frodolenti trasfigurantisi in apostoli di Cristo.

Il perciocchè si connette col giudizio espresso a 2Corinzi 11:12 circa le aspirazioni dei falsi dottori. Essi spiano ogni occasione di trar giù l'Apostolo per innalzar sè stessi, perchè non sono operai genuini di Cristo. Sono falsi apostoli, non scelti, nè mandati dal Signor Gesù, ma che si sono arrogati da sè quel titolo. Sono operai frodolenti, perchè non servono con rettitudine e lealtà al Signor Gesù, ma cercano il proprio interesse o quello del lor partito, anche a costo di rovinar chiese fiorenti. I mezzi che adoperano non sono onesti, poichè falsificano la parola di Dio, solleticano le passioni, invadono l'altrui campo, calunniano gli operai che il Signore onora e benedice. E con questo si dànno per apostoli di Cristo, assumendone le parvenze o la maschera.

14 E non è meraviglia; poichè Satana stesso si trasfigura in un angelo di luce.

Non c'è in quella trasformazione di operai frodolenti in apostoli di Cristo, nulla di incredibile, nulla che debba eccitar meraviglia, poichè il fenomeno non è senza frequenti analogie nel mondo morale ove il male suole assumere le parvenze del bene per adescar gl'incauti. Il loro capo, Satana, ch'è il principe delle tenebre, dà lor l'esempio assumendo le apparenze di un angelo di luce, di un messaggiero verace e santo del Dio di luce. La tentazione di Eva e quella di Gesù possono servire ad illustrare l'astuzia del diavolo.

15 Se il capo si serve di inganni simili,

non è dunque gran cosa se anche i suoi ministri si trasformano in ministri di giustizia.

Paolo apre intero l'animo suo riguardo a questi dottori giudaizzanti ed all'opera loro. Egli la considera come opera diabolica in quanto sovvertitrice dell'Evangelo della grazia; per conseguenza coloro che la fanno sono da lui considerati come «ministri di Satana, sia ch'essi ne abbiano coscienza o no. Forse, accecati dallo spirito di parte e dai pregiudizii dell'orgoglio giudaico, essi si persuadono di esser nella retta via. Il termine «ministri di giustizia» s'intende da alcuni come se giustizia avesse qui il senso dommatico ed indicasse la giustizia procurata da Dio in Cristo per la giustificazione dei credenti Romani 3-4. I ministri del Vangelo sarebbero ministri di giustizia, perchè la predicano al mondo invitando alla fede i peccatori. I giudaizzanti lo sarebbero anch'essi perchè predicano la giustizia, ma non quella che si trova in Cristo bensì quella che viene dall'osservanza della legge. Il senso è ricercato. Meglio intendere giustizia nel senso morale più largo. È ministro di giustizia chi predica con retta coscienza la verità e la santità chi serve all'incremento del regno di Dio «ch'è pace, giustizia ed allegrezza per lo Spirito Santo». I giudaizzanti non hanno che le parvenze di ministri di giustizia.

La lor fine sarà secondo le loro opere.

Possono ingannar gli uomini colle loro belle apparenze, ma non ingannano, sul loro vero essere, Colui che penetra fino alle ultime radici della vita morale. Egli sarà il Giudice ultimo di tutti ed il criterio del suo giudicio saranno le opere, ossia la condotta reale e positiva di ognuno. Cfr. Romani 2; Matteo 25. Per «la loro fine» s'intende lo stato loro finale risultante dalla sentenza di Dio. Simili appelli al giudicio infallibile di Dio occorrono molte volte negli scritti di Paolo. Cfr. 2Timoteo 4:14; Romani 12:19; 1Corinzi 3:17; Filippesi 3:19; 1Pietro 4:17.

AMMAESTRAMENTI

1. Dio distribuisce i doni secondo la sua volontà e non li concentra tutti sopra un solo individuo. Apollo ha l'eloquenza, mentre Paolo ha la conoscenza; ed egli riconosce con perfetta sincerità e modestia di non possedere allo stesso grado, tutti i talenti. Quel che Dio domanda è che ognuno faccia valere il dono ricevuto.

2. Possedere una conoscenza della verità cristiana pari a quella di Paolo è dato a pochi. Ma nessuno può esser riconosciuto qual ministro del Vangelo se non possiede una conoscenza del Vangelo tale da farlo capace d'ammaestrare gli altri e di rispondere agli attacchi degli avversarii. Cfr. Tito 1:9.

3. Se la nobile abnegazione di Paolo potè esser travisata, così da divenire un'arma in mano dei suoi avversarii, non dobbiamo trovare strano se la nostra condotta viene talvolta presentata sotto una luce sfavorevole. Ciò non deve nè scoraggirci nè farci deviare dalla via del dovere.

4. L'esempio della completa consecrazione di Paolo alla causa di Cristo resta quale grande ammaestramento per i credenti di tutti i tempi. Non c'è sacrificio al quale non sia disposto a sottoporsi pur di avvantaggiare l'opera del Signore. Egli ha veramente «rinunziato a sè stesso», talchè può dire: «vivo, non più io, ma Cristo vive in me». Se i banditori del Vangelo hanno spesso da lottare colle strettezze economiche, non si devono adontare di una condizione che fu quella del Maestro.

5. Lutero lasciò scritto «che i diavoli bianchi sono più pericolosi dei neri». Quando l'errore veste le forme della verità, il male, le apparenze del bene, ed i ministri di Satana quelle di ministri di giustizia, c'è da stare doppiamente in guardia onde non esser sedotti dai bei sembianti. I nostri tempi abbondano di ogni sorta di travisamenti e falsificazioni della verità divina. Quale necessità per chi vuol rimaner saldo in essa di attenersi più che mai alla parola di Dio «ch'è verità» e luce, e di chieder l'aiuto promesso dello «Spirito di verità» che ci conduce in tutta la verità e ci fa scorgere l'errore anche quando sia più abilmente travestito!

16 Sezione C 2Corinzi 11:16-33 LO STATO DI SERVIZIO DI PAOLO

Paolo prova la superiorità del suo apostolato, coll'esibire il proprio stato di servizio

La sezione è preceduta da una seconda introduzione apologetica sul genere di quella di 2Corinzi 11:1-4. A misura che Paolo procede nella esposizione della superiorità del suo apostolato, egli sente più viva la ripugnanza per quel ch'egli è costretto di fare e che egli caratterizza nuovamente come una pazzia.

Torno a dirlo: niuno mi prenda per pazzo.

In 2Corinzi 11:1 domandava al Corinzi di sopportare un tantino di pazzia da parte sua; ma gli preme di far loro sentire ch'egli si gloria per necessità di difesa, non per sistema. Il principio al quale intende restar fedele è quello enunziato in 2Corinzi 10:17-18. Niuno adunque prenda abbaglio sulle sue disposizioni morali. Egli non è così pazzo, da non saper che il suo gloriarsi sarebbe cosa insensata; quando non vi fosse costretto.

Se no, anche come pazzo, ricevetemi; affinchè ancor io mi glorii alcun poco.

Se non vi piace di credere ch'io non sono in realtà un dissennato millantatore, ebbene credete pur quel che volete, ma lasciate che ancor io faccia, almeno in proporzione minima, quel che vanno facendo abitualmente coloro al quali voi usate tanti riguardi. Ricevetemi, lasciatemi dire, equivale al sopportatemi di 2Corinzi 11:1.

17 Quel che dico, non lo dico secondo il Signore,

poichè il gloriarsi non è conforme all'esempio, nè alla volontà del Signore, non è in armonia colle disposizioni prodotte dallo Spirito di Cristo nei cuori cfr. Matteo 11:29; Luca 17:10;

ma come in pazzia,

come se avessi perduto il senso morale, quantunque in realtà io non sia ridotto a tale,

in questa salda fiducia [che ho] di poter gloriarmi.

Dice lett. «in questa salda fiducia del vanto» o «del gloriarmi». Per il senso di ὑποστασις vedi 2Corinzi 9:4. Paolo è persuaso di aver di che gloriarsi anche lui, quando lo voglia, tanto da coprir di confusione i tronfi dottori giudaizzanti. Nelle cose esterne egli è loro uguale; e quanto allo stato suo di servizio come servo di Cristo egli è loro, senza paragone, superiore.

18 Poichè molti si gloriano secondo la carne, ancor io mi glorierò.

I molti sono gli avversarii giudaizzanti. Il gloriarsi «secondo la carne» è un gloriarsi seguendo i criterii suggeriti dall'uomo naturale, privo dello Spirito di Cristo; un gloriarsi di quel ch'è esterno, senza valore spirituale Cfr. Filippesi 3:3 e segg.; Galati 6:13; atto ad esaltar l'orgoglio e l'egoismo. Così gloriavansi i dottori intrusi; e Paolo ricorderà, a sua volta, che in fatto di privilegi esterni, egli non è loro inferiore, per quanto egli abbia cessato dall'annettere importanza a codeste cose.

19 Volentieri, infatti, sopportate i pazzi voi che siete savii.

È da pazzo il gloriarsi; ma i Corinzi, che sono così avveduti e savii, e che sopportano con tanta condiscendenza il perpetuo vantarsi dei giudaizzanti, potranno, senza danno loro, sopportare anche Paolo quando, costrettovi, si glorierà. L'ironia tagliente dell'apostolo, flagella qui sul viso l'orgoglio di quei Corinzi che si erano mostrati così facili sprezzatori del loro padre spirituale cfr. 1Corinzi 4:8-10; e così pronti ad accogliere degli intrusi, i quali non solo non rifinivano dal vantar sè stessi, ma spadroneggiavano in ogni maniera sulla chiesa.

20 Infatti, se alcuno vi riduce schiavi, se alcuno vi divora, se alcuno prende, se alcuno s'innalza, se alcuno vi percuote in sulla faccia, voi lo sopportate.

Senza nominarli apertamente, è chiaro che Paolo descrive qui il modo di comportarsi dei dottori giudaizzanti verso la chiesa di Corinto. Per quanto si serva della forma dubitativa «se alcuno...», si sente ch'egli allude non a delle possibilità future, ma a dei fatti reali e presenti. «Se alcuno - com'è appunto il caso - vi riduce schiavi...» il ridurre schiavi viene a significare il «signoreggiare sulla fede» dei credenti 2Corinzi 1:24; 1Pietro 5:3; un farla da padroni su di loro arrogandosi il diritto di ordinare quel che devono credere e quel che devono fare come fossero degli schiavi e non dei figli chiamati a libertà. I giudaizzanti venuti di Giudea in Antiochia possono servire di illustrazione a codesta disposizione autoritaria e gretta ch'è propria dello spirito settario. «Se voi, dicevano essi, non siete circoncisi, secondo il rito di Mosè, voi non potete essere salvati» Atti 15:1,5. Si confr. per i giudaizzanti di Galazia, Galati 2:4; 4:1-11; 5:1; 6:12-14. L'espressione «se alcuno divora», s'intende vi divora, ricorda quella adoperata da Gesù riguardo ai Farisei: «Divorano le case delle vedove» Marco 12:40. Essa descrive l'avidità senza scrupoli e senza ritegno, colla quale i falsi apostoli, pur conservando un'apparenza di disinteresse, spogliavano la chiesa, abusando forse dell'ospitalità o in altro modo facendo il proprio interesse. Le parole «se alcuno prende» sono state spiegate sottintendendo un voi. Il senso sarebbe allora: Se alcuno vi prende con astuzia, come una preda che cade in poter suo cfr. 2Corinzi 12:6. È più naturale sottintendere, cogli antichi, un complemento di cosa: Se alcuno prende, senza scrupoli, i vostri beni, arrogandosi quasi il diritto di disporne. Se alcuno s'innalza, s'intende, s'innalza superbo, assume senz'altro un'alta autorità (Diotrefe). Così facevano i giudaizzanti dandosi per apostoli per eccellenza. Sotto la figura poi, del «percuotere in sulla faccia», Paolo rappresenta la condotta arrogantemente insolente tenuta da coloro di fronte alla chiesa. Essi la trattavano come fosse un branco di schiavi da menare con la sferza; e la chiesa sopportava tutto ciò pecorilmente.

21 Lo dico a [vostra] vergogna: quasi che

(o: come se)

noi fossimo stati deboli.

2Corinzi 11:21 è stato inteso in diversi modi. C'è chi traduce: «Lo dico a mia vergogna: Noi siamo stati proprio deboli» e quindi spiega così: «Riconosco con rossore che di fronte a simili prodezze dei giudaizzanti, noi siamo proprio stati troppo deboli». La frase sarebbe ironica: Sì davvero, noi non abbiamo una tale forza. Tuttavia il λεγω (lo dico) può riferirsi molto bene alla supina remissività dei Corinzi accennata nel versetto che precede ed il senso più semplice di ὡς ὁτι è come se 2Tessalonicesi 2:2. Paolo vorrebbe dire: È una vergogna per voi l'esservi così supinamente lasciati imporre da codesti insolenti. Avete mostrato di confondere la prepotenza arrogante colla vera forza. Certo, noi non ci siamo condotti a quel modo; ma ciò non significa che siamo stati deboli. Non vi abbiam trattati come vili schiavi, ma come figli spirituali educati a libertà. Però la nostra pazienza, la nostra ripugnanza ad usar la verga, la nostra abnegazione, non sono sinonimi di debolezza. Voi invece ci avete creduti deboli perchè non abbiam fatto pompa della nostra autorità. Ciò non fa onore al vostro discernimento spirituale. Questo senso è da preferire. Paolo non ammette d'essere stato debole cfr. 2Corinzi 10:10; sono i Corinzi che non sanno distinguere tra l'autorità d'un padre e la frusta d'un padrone.

Detto questo a mo' di preparazione, Paolo rialza il capo e di fronte ai titoli dei pseudo apostoli pone i proprii; di fronte all'opera loro settaria e da cuculi, pone uno stato di servizio quale niun altro servitore di Cristo ha potuto uguagliare.

Epperò, in qualunque cosa uno è ardimentoso - lo dico come pazzo, - lo sono anche io.

22 Sono essi Ebrei? Anch'io. Sono essi Israeliti? Anch'io. Sono essi progenie d'Abramo? Anch'io [lo sono].

I tre termini usati, indicano in fondo, sotto varii aspetti, un unico privilegio di cui menavano gran vanto i giudaizzanti venuti in Palestina. Ebrei, nome antico della migrazione Abramitica perchè venuta di là dall'Eufrate, si riferisce alla nazionalità. Nel N. T. designa specialmente quei Giudei che avevano conservato la conoscenza e l'uso della lingua ebraica. Sono perciò distinti dai giudei ellenisti (Atti 6:1; cfr. Filippesi 3:5; Atti 21:40; 22:2). Dei due nomi nazionali in uso: Giudeo ed Ebreo, quest'ultimo era il più nobile perchè ricordava l'antichità del popolo eletto. Israeliti da Israele, il nome dato da Dio al padre della nazione teocratica, accenna ai privilegi della teocrazia Romani 9:14. Seme o progenie d'Abramo evoca alla mente le promesse connesse col nome del patriarca ed in cui sono compendiate le speranze messianiche d'Israele. Cfr. Romani 9:7;11:1; Galati 3:8,16; Romani 4:13,16. Questo versetto mostra come una delle glorie carnali dei giudaizzanti fosse appunto la loro origine israelitica. È probabile anzi ch'essi appartenessero al partito farisaico cfr. Atti 11:2;15:5. Ora sotto quest'aspetto, Paolo non era loro inferiore in nulla. Cfr. Filippesi 3:4-7. «Non c'era al mondo un Israelita più fiero della sua nascita, che avesse un senso più alto delle glorie del suo paese, dell'apostolo dei Gentili; ma non poteva sopportare di vedere le cose in cui si gloriava avvilite come lo erano dai suoi rivali, fatte simbolo di meschina e spregevole vanità, fatte barriere all'universale amor di Dio dal quale tutte le famiglie della terra dovevano esser benedette» (Denney).

23 Sono essi ministri di Cristo? Parlo da pazzo: lo sono più [di loro].

Lasciando le considerazioni più esterne dell'estrazione nazionale, Paolo entra nel vivo della contesa col produrre il suo stato di servizio come ministro di Cristo. Paolo non disdice qui, riguardo ai falsi apostoli, il giudicio portato a 2Corinzi 11:13; ma, dato per vero quel ch'essi dicono di essere, cioè ministri di Cristo, egli, pur non dimenticando che è da pazzi il gloriarsi fuorchè nel Signore 2Corinzi 12:11; 1Corinzi 15:10; afferma altamente ch'egli lo è, ad ogni modo, più di loro, in grado più elevato e più reale. Quel che segue ne somministra la prova.

In fatiche molto più, in prigioni molto più, in battiture di gran lunga più.

Così il codice vaticano appoggiato da alcuni altri, e suffragato dalle maggiori probabilità interne. Per prigioni s'intendono gl'imprigionamenti subiti per la causa di Cristo. Dagli Atti ci è noto solo, per i tempi anteriori alla nostra epistola, il caso di Filippi Atti 16:23-40. Quelli di Gerusalemme, di Cesarea e di Roma sono posteriori. Clemente Romano 1Corinzi 5 dice che Paolo ha riportato il premio di costanza «avendo sette volte portato delle catene». Ed è probabile che Clemente conti soltanto le prigionie principali. Parimente gli Atti non ricordano altra battitura all'infuori di quella di Filippi.

in morti spesse volte,

cioè, esposto a frequenti pericoli di morte. Cfr. 2Corinzi 1:10; 4:10; 6:9; 1Corinzi 15:31; Romani 8:36. Le battiture stesse, i naufragi, la lapidazione, le congiure, le sommosse, ricordati più oltre costituivano altrettanti pericoli di vita; ma Paolo allude qui a quelli più imminenti. E poichè il parlar di battiture, di prigioni, di morti, rievocava dinanzi a lui i casi della sua vita missionaria, così egli accenna in modo più particolareggiato ad alcuni fatti, anche per mostrare che non a caso ha scritto ripetutamente «molto più», «molto più».

24 Dai Giudei ho ricevuto cinque volte quaranta [colpi] meno uno.

Era questa una delle regole invalse nella legislazione giudaica formulata sotto l'influenza delle interpretazioni rabbiniche. La legge Deuteronomio 25:3 prescriveva di non oltrepassare i quaranta colpi di bastone o di flagello; ma i rabbini, per timore che si potesse trasgredire la lettera della legge nel contare i colpi, avevano prescritto di andar solo fino a 39; di cui (dicono alcuni) 13 dovevano darsi sul petto e 26 sulle due spalle. Dai Giudei vale: per ordine delle autorità giudaiche. Il libro degli Atti tace questi fatti particolari.

25 Tre volte sono stato battuto di verghe.

S'intende per ordine di magistrati romani, essendo la flagellazione un castigo romano. La legge Porcia proibiva di uccidere un cittadino colle verghe (virgis caedere); ma ciò dimostra la gravità di quella pena. Cfr. Atti 16:22.

Una volta sono stato lapidato

in Listra e lasciato anzi per morto, come narra Luca Atti 14:19.

Tre volte ho fatto naufragio.

Negli Atti è fatta parola soltanto del naufragio sulla spiaggia di Malta occorso nel 60-61: ma di naufragii avvenuti nei viaggi anteriori, Luca non dice nulla nella sua breve narrazione, che non ha, d'altronde, scopo biografico.

Ho passato un giorno ed una notte

(ventiquattr'ore)

sul profondo [mare].

Lett. nell'abisso, cioè non nel fondo del mare, ma piuttosto «in alto mare», in preda alle onde infuriate, aggrappato probabilmente a qualche rottame di una nave. È questo un particolare relativo ad uno dei tre naufragii mentovati.

26 Spesse volte in viaggi

tanto che la carriera missionaria di Paolo si suol dividere in viaggi. Dal versetto 2Corinzi 11:24 l'Apostolo ha perduto di vista il confronto istituito coi pseudo apostoli e traccia, senza altro, il quadro delle sue peripezie e sofferenze come missionario. Certo si è che i suoi avversarii non avevano nulla di simile da iscrivere nel loro stato di servizio. I viaggi essendo, in allora anche nelle contrade meno barbare, faticosi, lenti e pericolosi, Paolo accenna ad alcuni dei pericoli incontrati.

in pericoli di fiumi

quando si doveano guadare o passare in barche durante le piene.

in pericoli di ladroni

che abbondavano nelle gole del Tauro ed in luoghi simili.

in pericoli da parte dei miei connazionali,

per es. in Damasco Atti 9:23; in Gerusalemme 2Corinzi 9:29; in Antiochia di Pisidia Atti 13:45; ecc. Quasi dovunque i Giudei gli tendono insidie e tentano di eccitar contro di lui le moltitudini.

in pericoli da parte dei pagani

come in Iconio, in Listra, in Filippi in Tessalonica, in Berea, in Corinto stessa, e da ultimo in Efeso.

in pericoli in città, in pericoli nei deserti, in pericoli sul mare

in quasi tutte le città ove si recò Paolo corse pericolo. Nei luoghi deserti era più esposto alle privazioni ed agli agguati di nemici o di ladroni; mentre sul mare, oltre alle burrasche, avea da temere ancora di altre insidie. Confr. per un caso analogo Atti 20:3.

in pericoli fra falsi fratelli

che potevano essere dei giudaizzanti Galati 2:4 ovvero dei cristiani ipocriti i quali ripresi da Paolo prendevano ad odiarlo ed a perseguitarlo.

27 in fatica e travaglio

costanti,

spesso in veglie

sia per supplire col lavoro manuale ai bisogni suoi materiali, sia per altre cause connesse col suo ministerio;

in fame e sete, spesso in digiuni

cfr. 2Corinzi 6:5; 1Corinzi 4:11. Non si tratta qui di digiuni volontari destinati come disse l'interprete cattolico Estius a render lucida la mente ed a domar la carne»; ma è questione, come il contesto lo indica, di digiuni imposti dalla necessità dell'opera. Cfr. 2Corinzi 11:8.

in freddo e nudità

sia per le vicende variabili dei viaggi, sia per la penuria di mezzi pecuniari.

28 Senza contare ti resto, quel che mi assale ogni giorno è la sollecitudine di tutte quante le chiese.

Il fin qui detto si riferiva a cose più esterne, e per lo più di breve durata. Lo spirito può esser gagliardo in fede anche nelle prigioni, nelle fatiche e nelle privazioni. Ma, come apostolo di Cristo, Paolo porta ancora un altro peso, oltre a quello dei travagli fin qui enumerati, un peso di ansiosa, paterna quotidiana sollecitudine per tutte le chiese e per i loro membri. L'espressione χωρις των παρεκτος è tradotta dalla Vulgata e da altri «oltre alle cose che son di fuori». Ma παρεκτος non ha mai quel senso ed indica sempre un'eccezione Matteo 5:32; Atti 26:29. Quindi la locuzione avverbiale qui adoperata significa «quel ch'è all'infuori», «il resto». Paolo vuol dire: Senza contare le persecuzioni, privazioni e fatiche che ho mentovate ed altre di simil genere... Tutt'al più, si potrebbe restringere il senso rendendo: «Senza contare quel ch'è eccezionale... cioè la cura quotidiana delle chiese». La parola ch'è quella portata dai migliori codici s'interpreta meglio con una circonlocuzione: «quel che m'assale», «quel che m'assedia». Essa è infatti adoperata per descrivere l'affollarsi minaccioso di una turba tumultuante Atti 24:12. Sono molte le chiese fondate da Paolo, ed anche le altre lo preoccupano sono molti i loro membri, svariate le loro condizioni spirituali; e questa folla di bisogni gli si aduna intorno tutti i giorni e lo assale di mille sollecitudini. «Porto attorno con me la sollecitudine del mondo intiero» (Teodoreto). Le preghiere dell'apostolo per le chiese, per i loro conduttori e per i loro membri stanno ad attestare quanto fosse verace la simpatia ch'egli provava per tutti. Egli ne reca due esempi principali.

29 Chi è debole, che le non sia debole?

S'intende: che io per simpatia verso il suo stato, i suoi pericoli ed i suoi dolori morali, non mi senta debole con lui? Si tratta di debolezza nella fede derivante da antichi pregiudizii od abitudini di educazione. Per es. nei giudeo-cristiani di cui 1Corinzi 8-9; Romani 15.

Chi è scandalizzato ch'io non arda?

Chi è scandalizzato corre pericolo di far naufragio quanto alla fede. Ciò può avvenire ai deboli quando i forti mancano di carità; ed in genere può accadere per via delle infedeltà dei credenti. L'esser arso è immagine della viva ansietà, del dolore cocente che l'Apostolo prova quando gli giunge notizia di un qualche scandalo. Arde di trepidazione, di desiderio di riparare al male. «Quanto maggiore è la carità, tanto sono più gravi le ferite prodotte dai peccati altrui» (Agostino). Paolo vive della vita dei suoi figli spirituali; fa sue le loro debolezze e sente come suoi proprii i loro pericoli.

30 Se bisogna gloriarsi, mi glorierò di quel che si appartiene alla mia debolezza.

Se assolutamente è necessario, per difendere il mio apostolato, di esporre quel che ne dimostra la realtà e la superiorità, ebbene, io sceglierò di preferenza di mettere innanzi le cose che sono in più intima connessione colla mia debolezza personale, umana. Ma quali sono queste cose? L'Apostolo vuol egli alludere alle cose fin qui mentovate od a quelle ch'egli ha in animo di citare ancora? C'è chi crede che Paolo avrebbe avuto in animo, a questo punto, di enumerare tutta una serie di circostanze nelle quali la sua debolezza era stata più manifesta, come ad esempio in quella sua fuga così umiliante da Damasco 2Corinzi 11:32-33; ma poi, dopo aver mentovato un solo caso, egli sarebbe passato ad argomenti più gloriosi. Codesta ipotesi è piena d'inverosimiglianze. Perchè sarebbe più umiliante lo scampare per mezzo d'una cesta, anzi che in altro modo? Senza andare all'estremo di chi considera la liberazione di Damasco come particolarmente gloriosa per l'Apostolo, sarà per lo meno lecito il non vedervi alcun disonore e, meno che mai, un atto di codardìa. Stando al contesto, ed in particolare a quanto Paolo scrive in 2Corinzi 12:9-10; è evidente che «le cose della sua debolezza» sono quelle sofferenze, quei travagli, quelle privazioni, quelle persecuzioni sofferte per l'Evangelo e che si connettono intimamente colla umana debolezza dell'apostolo e gliela ricordano dolorosamente. Il soffrir la fame, la sete, il freddo, la nudità; lo spasimar sotto alle verghe, il lottar col le onde, in imminente pericolo di morte, non sono forse cose connesse colla umana debolezza del grande apostolo? Questa, è la categoria di fatti ch'egli, di preferenza, sceglie di mentovare quando trattasi di raccomandare il suo apostolato. Egli corre così minor pericolo di cedere ad un qualche sentimento d'orgoglio. Infatti, ha scivolato rapidamente sulla sua superiore conoscenza; citerà una sola fra le tante rivelazioni concessegli, tacerà delle numerose chiese fondate, ma sull'elenco dei suoi patimenti egli s'indugia lungamente; ed anche dopo averlo chiuso, lo riprende per aggiungervi il ricordo del grave pericolo corso in Damasco.

31 Ed appunto perchè quell'elenco di travagli e di patimenti sofferti è qualcosa di meraviglioso, Paolo protesta della sua assoluta veracità in tutto ciò ch'egli ha detto fin qui o starà per dire ancora. Molte delle circostanze mentovate non erano di pubblico dominio, nè potevano venir controllate. Perciò ad allontanare il sospetto di esagerazione l'Apostolo si appella solennemente al Dio che tutto conosce.

Iddio, il Padre del Signor Gesù (testo em.), il quale è benedetto in eterno, sa che io non mento.

Si traduce da alcuni: «L'Iddio e padre del Signor G.»; ma l'intento di Paolo è di prendere a testimonio colui ch'è, ad un tempo, l'Iddio supremo ed il Padre del Signor G. Mentire alla presenza del Dio che egli invoca qual Padre del suo Salvatore e degno di eterna adorazione, è moralmente impossibile a Paolo. Il riferire questo solenne giuramento unicamente all'incidente di Damasco mentovato nel versetto seguente, gli toglie importanza, nè vi sarebbe alcuna speciale ragione di profferirlo.

32 La fuga avventurosa da Damasco, ricordata in 2Corinzi 11:32-33; viene da molti connessa con le rivelazioni di cui a 2Corinzi 12:1: sia che questi fatti si riguardino come cose più gloriose delle precedenti (Godet), sia che all'incontro, si veda nel primo fatto un caso particolarmente umiliante (Meyer), ovvero ancora si cerchi la connessione nelle malignazioni dei nemici di Paolo pronti ad accusarlo di codardìa (Heinrici). Tutto questo è molto forzato. Più semplice di molto il nesso com'è espresso dal Reuss: «Scrivendo questa pagina, l'Apostolo avea dovuto, a dir così, passare in rivista tutta la sua vita apostolica, per quanto manchino qui i particolari. Ma questi la sua memoria glieli rappresentava in tutta la loro vivacità primitiva. Ond'è che, al momento di por termine alla sua enumerazione, lo vediamo fermarsi con compiacenza sopra una delle scene che la sua immaginazione gli ritraeva dinanzi. Era la prima; la prima avventura accadutagli dopo la sua conversione Atti 9:25. È come se volesse dire: «il mio ministerio non è stato una gita facile e gradevole, un giuoco, un piacere; la cesta sospesa alla finestra di Damasco me ne ha dato un saggio; e son vent'anni ormai che questo dura». La forma brusca, infatti, con cui viene introdotto questo ricordo, indica che è un'aggiunta, una poscritta all'enumerazione dei pericoli innanzi mentovati. Si confronti altri episodii in 2Corinzi 11:24-25. Paolo intendeva dalle sofferenze passare alle visioni gloriose; ma gli torna, d'un tratto, alla mente questo episodio caratteristico, e lo mentova; poi, riprende il filo col: Bisogna gloriarsi 2Corinzi 12:1; che riannodasi al 2Corinzi 11:30: «Se bisogna gloriarsi».

In Damasco, il governatore del re Areta custodiva la città dei Damasceni per prendermi, e fui calato da una finestra, in una sporta, lungo il muro, e scampai dalle sue mani.

Etnarca ( εθναρχης) ha senso elastico, potendo applicarsi a capi di piccoli distretti, come a governatori di vaste provincie. In Atti 9:23, Luca non parla del governatore, ma solo dei Giudei che congiurarono contro a Paolo e guardavano, giorno e notte, le porte per ucciderlo. Si può supporre, o che il governatore fosse anch'egli giudeo, o che i Giudei fossero col denaro, colle influenze o colle calunnie, gl'istigatori dell'azione del governatore, cooperando inoltre coi soldati per raggiungere lo scopo. Si confronti la congiura di Gerusalemme ove i Giudei cercano di far servire il tribuno Lisia ai lor disegni Atti 23:12 e segg. Areta (nelle iscrizioni Charethath), e propriamente Aretas Aeneas, regnò sull'Arabia Nabatea, capitale Petra, dall'anno 7 avanti Cristo fino al 41 o 49 D. C. Avea dato la sua figlia ad Erode Antipa che poi la ripudiò per sposare Erodiade; talchè la figlia di Areta se ne tornò nella casa paterna. Questa, aggiunta a dei litigii per i confini, fu la cagione della guerra in cui Antipa ebbe la peggio A. D.36. Quando il governatore Vitellio stava per marciare contro Areta, ricevette la notizia della morte di Tiberio, il protettor di Antipa A. D.37, e sospese la marcia. Caligola che gli succedette nell'impero lasciò probabilmente Damasco sotto il governo di Areta. Infatti non si son trovate monete damascene coll'effigie di Caligola 37 a 41 D. C. e neppure di Claudio A. D. 41-54 mentre se ne trovano coll'effigie di Augusto e di Tiberio e di nuovo con quella di Nerone. Il fatto qui ricordato ha dovuto accadere appunto sotto Caligola, cioè alla fine del secondo soggiorno di Paolo in Damasco, dopo i tre anni passati in Arabia Galati 1:15-19.

33 La finestra o porticina da cui fu calato Paolo doveva appartenere ad una delle case edificate sulle mura della città. La σαργανη (sargane) era una sporta contesta di corde o di giunchi. In essa Paolo fu calato «per il muro», cioè per tutta l'altezza del muro, lungh'esso fino al suolo, mediante una corda, e così potè scampare.

AMMAESTRAMENTI

1. La tendenza dell'autorità ecclesiastica non conforme alla Scrittura è sempre tirannica. Essa considera il popolo come assolutamente dipendente dal clero ed il clero come avente una superiorità inerente e di ufficio sul popolo... Il Vangelo e, per conseguenza, il sistema dottrinale evangelico per opposizione a quello clericale, è opposto ad ogni indebita autorità; insegna la uguaglianza essenziale dei credenti ed apre la via della grazia e della salvazione al popolo senza l'intervento del prete (C. Hodge). Purtroppo l'esperienza insegna che coloro i quali riducono il popolo in ischiavitù sono più ascoltati dai loro simili di quelli che li vogliono condurre alla gloriosa libertà di cui Cristo ci ha francati. La naturale pigrizia che porta a scaricarsi sugli altri della propria responsabilità, la dabbenaggine che induce a ricever per buona moneta le pretese più insolenti e meno fondate affacciate da uomini ambiziosi, spiega la remissività supina e codarda del popolo cristiano che si lascia spogliare, signoreggiare, tiranneggiare e schiaffeggiare senza protesta. Se invece comparisce un Paolo od un Lutero che metta a nudo il vero essere dei tirannelli religiosi e faccia rifulgere la verità, essi tremano e fuggono nelle lor tenebre come i pseudo-apostoli di Corinto.

2. I privilegii esterni di nascita o di educazione sono vere benedizioni se adoperati quali mezzi per giungere all'ideale spirituale dell'uomo. Ma possono diventare dei lacci quando si considerino come capaci di garantire o di sostituire la vita e la potenza spirituale che solo lo Spirito può comunicare.

3. Il quadro delle fatiche, dei travagli, dei patimenti, sopportati dall'apostolo Paolo per la causa di Cristo è atto ad umiliarci quando pensiamo ai tempi migliori in cui viviamo, al nostro zelo fiacco, alla nostra impazienza di fronte a minime privazioni, a difficoltà a contraddizioni ed opposizioni. D'altra parte ci conforta e sprona quando pensiamo all'opera che un uomo può compiere, alla forza morale che può spiegare quando si manifesti la potenza di Dio nella di lui debolezza ed egli non ponga ostacolo alla grazia di Cristo. Un carattere come quello di Paolo così pieno di tenera simpatia per i deboli, così zelante della gloria di Dio e della salvezza degli uomini, così coraggioso nel denunziare il peccato, così paziente e forte nel soffrire, così calmo, equilibrato e savio, costituisce una grande prova morale della verità del cristianesimo. Il mondo gl'inflisse gravi sofferenze, ma i patimenti sofferti per cagion di giustizia ridondano più di ogni altra cosa a nostro onore.

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